Molti tendono a dimenticarsi, sopraffatti dalle moltitudini di nuove leve di quel genere ora più che mai prolifico che risponde al nome di Metalcore, cosa determina ciò che c’è di buono in esso e il suo successo quando viene espresso al meglio. Tutto, come ogni cosa, nasce da un’idea embrionale, uno stile in principio quasi atipico; lo stile proprio di coloro che possono essere considerati come “fondatori”, lo stile proprio degli Zao.
Attivi dal 1993, questa prolifica band dalle forti radici cristiane arriva al suo nono album con questo Awake? (successore di quell’abrasivo gioiello che risponde al nome di The Fear is what keep us here), e decidono di presentare un lavoro più solare e “controllato” rispetto ai suoi feroci predecessori. Dopo l’incendiaria opener “1000000 Outstreched arms of nothing”, “Entropica” porta in evidenza questo cambiamento: il growl si alterna al pulito, i riff fungono da supporto per creare dei chorus accattivanti. Gli Zao che replicano i Killswitch Engage? Non proprio. Si sentono soprattutto echi dei Mastodon dell’epoca pre-Blood Mountain, seppure la voce del frontman Dan Wyadant nella parti in clean raggiunga livelli di melodia lontani dal roccioso quartetto di Atlanta. La stessa formula viene replicata in “The Eyes Behind The Throne”, mentre bisogna aspettare “Human Cattle Masses Marching Forever” per fuoriuscire dai canoni del metalcore melodico e sprofondare nelle sature atmosfere dello sludge e del post-metal, richiamando quell’oscuro substrato presente negli album precedenti della band. La riproposta di “Romance of southern spirit” (contenuta nell’edizione giapponese di The Funeral Of God) e “What will you find?” riportano il sound all’interno dei classici canoni del Metal, mentre la Title Track presenta un gustoso lavoro di riffing dai toni quasi “corali” e un’altra ottima prova vocale di Wyadant, che si conferma uno dei più espressivi e dotati cantanti della scena. “Quiet Passengers” è una sorta di summa del corpo sonoro dell’album divisa in due parti, e ci introduce verso la conclusione dello stesso, con l’ottima “Reveal”, costruita su di un mutevole breakdown, che funge da frattura.
Con questo lavoro gli Zao non aggiungono nulla di nuovo alla loro brillante carriera, peccando forse di eccessiva uniformità, ma non di certo per la sincerità della proposta. Un buon lavoro per chi segue questi alfieri da anni, un’opportunità per i neofiti di scoprire coloro che da tempo sono considerati i padri della scena.