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WATERSHED
Un gruppo che produce musica catalogabile come Progressive-Death-Black-Gothic-Metal è già di per se difficile da leggere. Figuriamoci se hanno già prodotto la bellezza di otto album in dieci anni di carriera e ognuno di essi ha fatto gridare al capolavoro del genere così come hanno fatto gli Opeth. Parliamo di un gruppo che viaggia su una corsia preferenziale tutta sua nel panorama musicale scandinavo e mondiale.
Diciamoci la verità, dopo tanti anni di militanza la componente soft esce allo scoperto e la musica diviene più riflessiva lasciando meno spazio alla rabbia giovanile. La voglia di sperimentare nuovi tipi di sonorità per una mente come Mike Akerfeldt porta tutto il gruppo a musicare intrecci sempre più complessi e disparati affiancando o addirittura fondendo insieme materiale incompatibile.
È la normale evoluzione per un gruppo eclettico, partita da quello strabiliante “Orchid” e arrivata tre anni fa al capitolo “Ghost Reveries”.
Certo perdere pezzi importanti come il batterista e il chitarrista co-fondatore è difficile da superare ma non in questo caso la cui sola capacità di Mike (o Mikael, come preferite) basta e avanza a livello di talento per dare comunque al gruppo la capacità di rilasciare ancora album di questo livello.
La solidità è arrivata anche grazie alla Roadrunner, potente etichetta che ha deciso di tenerli sotto la propria ala protettiva dando libero sfogo all’artista di esprimersi e dando un notevole apporto dal punto di vista della stabilità e dell’efficienza produttiva.
I più sorpresi saranno però gli aficionados del gruppo. Soprattutto dopo che la prima canzone è una sorta di intro di soli 3 minuti e 11 secondi (pazzesco per una band abituata a pezzi che mediamente si assestano sulla dozzina di primi) con l’inserimento di una voce femminile. Basandosi sempre sull’altalenante accostamento di ritmi tipico degli Opeth, il secondo brano si presenta come un roccioso muro di chitarre la cui voce dolcissima di Akerfeldt si trasforma in un ruggito growl di otto minuti interrotto solo dalla voglia di sentire ogni tanto un paio di note acustiche. Un lamento sussurrato fa da apertura anche per “The Lotus Eater” nella quale la componente prog è veramente marcata in alcune parti e sfumata con tastiere di stampo jazzistico in altre.
Il titolo dell’album, Wathershed = Spartiacque, lo si ritrova espresso al meglio in quei pochi secondi di silenzio dopo il sospiro di Mike alla fine di “The Lotus Eater”. In effetti la seconda e quarta traccia dell’album sono le più legate alle radici death del gruppo anche se con ritmiche sapientemente intervallate che altri interpreti del genere non saprebbero ne creare ne eseguire. La successiva “Burden” cambia totalmente strada dando un sterzata a 360 gradi all’album, si passa a viaggiare in strettissimi spazi tra i Led Zeppelin e i Pink Floyd con un travolgente e malinconico assolo di chitarra conclusivo di 4 minuti che appassiona ad ogni nota in più. È la parte più riflessiva dell’album dove infatti viene collocata la bellissima “Porcelain Heart”, primo singolo estratto. Raffinatissimo intreccio di capacità compositive differenti, si fanno strada in questo brano riff potenti, pesanti e veloci, parti acustiche appena percettibili, trascinanti maree progressive e cullanti melodie cantilenate. L’ugola di Akerfeldt passa dal growl più brutale ad una pulizia vocale in una frazione di secondo con un eleganza disarmante. La poetica Hessian Peel è un giusto contributo di undici minuti alla sognante maestosità cara agli Opeth, contaminazione di suoni così diversi tra loro fino all’emozionale e disperato lamento gutturale finale di Mike. Finale che trova la sua giusta dimensione nella semi-strumentale “Hex Omega” dal testo laconico.
È un album sicuramente di transizione per gli Opeth, probabilmente uno spartiacque su un mondo ancora più vasto e complesso di quello che fino ad ora ci hanno fatto vedere e sentire. Le influenze jazz-fusion diventano sempre più incisive e l’inserimento, anche se per poco di una voce femminile fa presagire che l’evoluzione della specie Opeth sarà sempre più verso un tipo di sonorità più docili, meno cupe e rabbiose ma pur sempre oscure a malinconiche. Anzi forse ancor di più che in passato:
la maturazione caratteriale di Akerfeldt lo porta a non inserire i testi delle canzoni perché ritenuti troppo personali.
Seguire l’introversione progressiva degli Opeth attraverso questo album è la strada giusta, denigrare un lavoro di tale levatura solo perché differente da ciò che il gruppo ha già fatto proprio no.
Voto: 7
01. Coil
02. Heir Apparent
03. The Lotus Eater
04. Burden
05. Porcelain Heart
06. Hessian Peel
07. Hex Omega