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HURT
VOL. 1
In principio era il grunge: più che uno stile musicale vero e proprio, il grunge rappresentava un sistema, un metodo per esprimere le lacrime, l’autocommiserazione, il male di vivere ed il dolore di tutta una generazione, quella tribolata “Generazione X” che negli anni ’90 si rispecchiava per filo e per segno nei testi grondanti negatività dei vari Kurt Cobain, Eddie Vedder, Layne Staley e Chris Cornell. Con le tragiche morti di Cobain e Staley e la maggiore serenità acquisita da Vedder e Cornell, l’arroventato testimone del pessimismo rock passò nella mani di quello stuolo di gruppi denominati “post” e poi “nu-grunge”, i quali – nonostante qualche buon proposito sparso – trasformarono l’eredità di Seattle in una mera parodia senza cuore.
Il corrispettivo musicale del vaso di Pandora – per nulla scalfito dai lucciconi al mascara dell’emo – è però destinato ad essere nuovamente scoperchiato affinché il proprio contenuto dolorifico possa essere riversato negli stampi circolari dei compact disc.
Il responsabile del nuovo morbo risponde al moniker di Hurt: un nome, una garanzia di dolore e sangue, poiché la musica degli Hurt ferisce eccome.
Il veicolo scelto dagli esordienti Hurt non è necessariamente quello del grunge: ad essere sinceri, ci sono canzoni – soprattutto nella seconda metà dell’album intitolato ‘Vol. 1’– che potrebbero effettivamente essere etichettate coi prefissi di “post” (“Dirty” oppure “Losing”, che ricalca un po’ le forme degli Stone Sour di Corey Taylor) oppure “nu” (“Unkind”), ma lo spirito dagli Hurt appare più genuino e dunque più affine a quello dei “Seattle originals” in quanto meno imitativo e più propositivo; agli Hurt non importa essere i nuovi Pearl Jam né interessa suonare esattamente come i Soundgarden di “Superunknown”; gli Hurt vantano un proprio stile che, oltre a prendere costruttivamente spunto dalla mitologia grunge, si allarga a ventaglio anche su Metallica, Tool, Radiohead, Henry Rollins, R.E.M. e Katatonia. In parole povere: non siamo di fronte all’ennesimo disseppellimento, gli Hurt non sono l’ultima ignobile “cover band” grunge (a proposito… cos’è il grunge?) e forniscono una schiacciante prova scagionante con pezzi grandiosi e dalle sostanziali pennellate tooliane come il singolo “Rapture” ed una “House carpenter” esaltata da effetti ambientali e pianoforte (suonato dal batterista Evan Johns, figlioccio di Andy, produttore del recente EP degli Ill Niño e già tecnico di Led Zeppelin, Rolling Stones, Joe Satriani e Van Halen). Intensità, catarsi e patimento sono assicurati anche dalla soft & heavy “sviolinata” di “Shallow” (dimenticavo: il frontman J. Loren, oltre ad interpretare magistralmente le proprie liriche, suona anche il violino), dalla pomposità orchestrale di “Overdose” e dal blues-metal di “Falls apart”, così come dall’intreccio ideale tra A Perfect Circle e Smashing Pumpkins di “Forever” e dalla ballata etno-indie-pop “Danse russe”.
Grunge o non grunge, questo è il dilemma… poco importa che il caso si riapra a causa di un parallelo – “Cold inside” – con il leggendario “unplugged” a lume di candela dei Nirvana: la proposta musicale degli Hurt appare sufficientemente spontanea e sostanziosa per sopravvivere anche senza il cordone ombelicale di Seattle. Gli Hurt fanno male davvero. Che si sia finalmente trovato un sinonimo alla parola “grunge”?
Silvio52
Voto: 7
TRACKLIST:

1. Shallow
2. Rapture
3. Overdose
4. Falls Apart
5. Forever
6. Losing
7. Unkind
8. Danse Russe
9. Dirty
10. Cold Inside
11. House Carpenter