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UNDEROATH
DEFINE THE GREAT LINE
DEFINE THE GREAT LINE
Chi conosce bene gli Underoath sa quanta fatica, quante controversie e quanta dedizione c’è dietro ad ogni loro album. Questi ragazzi della Florida ne hanno fatta di strada nei loro otto anni di carriera, segnata da vari cambi di formazione e stile; questo disco rappresenta in pieno l'ennesima svolta, l'ennesima variazione stilistica intrapresa dalla band che ora sembra aver trovato la giusta dimensione e la propria isola felice nella Solid State Records.
Si fa subito notare il fatto che la band cristiana, originaria di Tampa Bay, non si è lasciata risucchiare dalla moda del momento evitando di ridursi ai livelli di una qualsiasi screamo-pop band, continuando invece imperterrita per la propria strada e dando stavolta meno spazio alle melodie più easy-listening presenti invece nell’album precedente “They’re Only Chasing Safety”; ingenti quantità di sfuriate metalliche fanno da sottofondo all'alternanza tra melodie e urla ad opera di uno Spencer Chamberlain più in forma che mai, accentuando così maggiormente l’aggressività delle nuove composizioni. Anche la parte elettronica curata da Christopher Dudley ha una rilevante importanza, creando atmosfere intrise di misticità e cupezza tali da regalare maggior fascino e mistero ai nuovi brani. La produzione è inoltre impeccabile, merito della redditizia scelta del gruppo di porsi sotto l’ala protettrice del duo Matt Goldman (Copeland, Cartel) e Adam Dutkiewicz (chitarrista tuttofare dei Killswitch Engage).
“Define The Great Line” si apre con “In Regards To Myself”, secondo singolo estratto che fa subito capire in quale direzione si muoverà la nuova release, un orientamento certamente aggressivo introdotto dalla frase "Wake up! This is not a test! It's time to meet the concrete!", con ritmiche ispirate a gruppi come Every Time I Die e The Bled, abbandonando qualsiasi affinità da emo-band pur senza rinunciare a parti melodiche ben curate.
Si prosegue con “A Moment Suspended In Time”, altro pezzo in perfetto Underoath new-style nel quale le urla di Spencer e la voce melodica del batterista Aaron Gillespie si intrecciano ad opera arte; subito dopo troviamo “There Could Be Nothing After This” dove gli inserti di elettronica si ritagliano un ruolo importante, arricchendo anche la successiva “You’re Ever So Inviting” la cui considerevole parte melodica rappresenta il punto di incontro con il precedente lavoro.
Arriva poi l'inatteso turno di “Salmamir”, un pezzo interamente permeato di elettronica che fa da base a versi della bibbia recitati in russo, scelta coraggiosa ed insolita che contrasta fortemente con la palesata predilezione per un sound più potente; un'occasione per riprendere fiato dopo un poker iniziale semplicemente devastante. “Returning Empty Handed” valorizza ulteriormente la pausa religiosa ripartendo all'insegna della violenza sonora, seguendo la ritmica schiacciasassi imposta dalle chitarre del duo Smith-McTague le quali si intersecano ottimamente alle urla di Chamberlain: in questa traccia emerge più che mai l'abilità che questi ragazzi hanno sviluppato nel dilatare parecchio le atmosfere e le canzoni, adattando stilemi riconducibili, con le dovute proporzioni, a mostri sacri quali Isis o Cult Of Luna. Questa novità la troviamo anche nel brano successivo “Casting Such A Thin Shadow”, una pseudo-ballad quasi interamente strumentale lunga sei minuti che esplode in un finale pirotecnico; con “Moving For The Sake Of Motion” ed il primo singolo “Writing On The Walls” gli Underoath tornano a calcare parzialmente le orme di “They’re Only Chasing Safety”, con la parte melodica di Gillespie che trova il suo naturale completamento nello screaming di Spencer. La conclusione è affidata alla strana coppia “Everyone Looks So Good From Here” e “To Whom It May Concern”, la prima violenta e cruda, l'altra malinconica con molte variazioni di tempo e di atmosfere.
In definitiva un album genuino e ricco di pathos, sofferenza e malinconia espressa e soprattutto trasmessa come pochi altri album sono in grado di fare; un lavoro originale e sincero firmato da ragazzi che nonostante la giovane età non hanno paura di mettersi alla prova, di esplorare nuovi territori e di cambiare direzione lasciando da parte il gran successo mondiale ottenuto con “They’re Only Chasing Safety” evitando così giustamente di proporne una criticabile copia priva di onestà.
Fedeli al titolo, gli Underoath riescono pienamente a centrare il proposito di definire la propria 'great line'.
Si fa subito notare il fatto che la band cristiana, originaria di Tampa Bay, non si è lasciata risucchiare dalla moda del momento evitando di ridursi ai livelli di una qualsiasi screamo-pop band, continuando invece imperterrita per la propria strada e dando stavolta meno spazio alle melodie più easy-listening presenti invece nell’album precedente “They’re Only Chasing Safety”; ingenti quantità di sfuriate metalliche fanno da sottofondo all'alternanza tra melodie e urla ad opera di uno Spencer Chamberlain più in forma che mai, accentuando così maggiormente l’aggressività delle nuove composizioni. Anche la parte elettronica curata da Christopher Dudley ha una rilevante importanza, creando atmosfere intrise di misticità e cupezza tali da regalare maggior fascino e mistero ai nuovi brani. La produzione è inoltre impeccabile, merito della redditizia scelta del gruppo di porsi sotto l’ala protettrice del duo Matt Goldman (Copeland, Cartel) e Adam Dutkiewicz (chitarrista tuttofare dei Killswitch Engage).
“Define The Great Line” si apre con “In Regards To Myself”, secondo singolo estratto che fa subito capire in quale direzione si muoverà la nuova release, un orientamento certamente aggressivo introdotto dalla frase "Wake up! This is not a test! It's time to meet the concrete!", con ritmiche ispirate a gruppi come Every Time I Die e The Bled, abbandonando qualsiasi affinità da emo-band pur senza rinunciare a parti melodiche ben curate.
Si prosegue con “A Moment Suspended In Time”, altro pezzo in perfetto Underoath new-style nel quale le urla di Spencer e la voce melodica del batterista Aaron Gillespie si intrecciano ad opera arte; subito dopo troviamo “There Could Be Nothing After This” dove gli inserti di elettronica si ritagliano un ruolo importante, arricchendo anche la successiva “You’re Ever So Inviting” la cui considerevole parte melodica rappresenta il punto di incontro con il precedente lavoro.
Arriva poi l'inatteso turno di “Salmamir”, un pezzo interamente permeato di elettronica che fa da base a versi della bibbia recitati in russo, scelta coraggiosa ed insolita che contrasta fortemente con la palesata predilezione per un sound più potente; un'occasione per riprendere fiato dopo un poker iniziale semplicemente devastante. “Returning Empty Handed” valorizza ulteriormente la pausa religiosa ripartendo all'insegna della violenza sonora, seguendo la ritmica schiacciasassi imposta dalle chitarre del duo Smith-McTague le quali si intersecano ottimamente alle urla di Chamberlain: in questa traccia emerge più che mai l'abilità che questi ragazzi hanno sviluppato nel dilatare parecchio le atmosfere e le canzoni, adattando stilemi riconducibili, con le dovute proporzioni, a mostri sacri quali Isis o Cult Of Luna. Questa novità la troviamo anche nel brano successivo “Casting Such A Thin Shadow”, una pseudo-ballad quasi interamente strumentale lunga sei minuti che esplode in un finale pirotecnico; con “Moving For The Sake Of Motion” ed il primo singolo “Writing On The Walls” gli Underoath tornano a calcare parzialmente le orme di “They’re Only Chasing Safety”, con la parte melodica di Gillespie che trova il suo naturale completamento nello screaming di Spencer. La conclusione è affidata alla strana coppia “Everyone Looks So Good From Here” e “To Whom It May Concern”, la prima violenta e cruda, l'altra malinconica con molte variazioni di tempo e di atmosfere.
In definitiva un album genuino e ricco di pathos, sofferenza e malinconia espressa e soprattutto trasmessa come pochi altri album sono in grado di fare; un lavoro originale e sincero firmato da ragazzi che nonostante la giovane età non hanno paura di mettersi alla prova, di esplorare nuovi territori e di cambiare direzione lasciando da parte il gran successo mondiale ottenuto con “They’re Only Chasing Safety” evitando così giustamente di proporne una criticabile copia priva di onestà.
Fedeli al titolo, gli Underoath riescono pienamente a centrare il proposito di definire la propria 'great line'.
Stepunx
Voto: 9
Voto: 9
TRACKLIST:
01. In Regards To Myself
02. A Moment Suspended In Time
03. There Could Be Nothing After This
04. You're Ever So Inviting
05. Salmamir
06. Returning Empty Handed
07. Casting Such A Thin Shadow
08. Moving For The Sake Of Motion
09. Writing On The Walls
10. Everyone Looks So Good From Here
11. To Whom It May Concern
01. In Regards To Myself
02. A Moment Suspended In Time
03. There Could Be Nothing After This
04. You're Ever So Inviting
05. Salmamir
06. Returning Empty Handed
07. Casting Such A Thin Shadow
08. Moving For The Sake Of Motion
09. Writing On The Walls
10. Everyone Looks So Good From Here
11. To Whom It May Concern