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THE AMALGAMUT
Terzo lavoro per i Filter: dopo “Short bus” del 1995 e “Title of record”, uscito nel 1999, la responsabilità della cruciale “prova del tre” grava tutta sulla schiena di “The Amalgamut”, amalgama industrial-pop sapientemente filtrato e distillato dal genietto incompreso Richard Patrick (ex turnista dei Nine Inch Nails nonché fratello dell’attore Robert – il T-1000 di “Terminator 2”, per chi non lo sapesse) con l’assistenza del polistrumentista italo-americano Geno Lenardo, del produttore Ben Grosse (di recente impegnato coi Sevendust per “Animosity”) e della sezione ritmica composta da Frank Cavanagh (basso) e Steven Gillis (batteria).
Si salpa e si naviga subito a vele spiegate con “You walk away”, impetuoso pezzo di robusto hard-rock in cui sale già alla ribalta la capacità interpretativa della voce di Patrick, perennemente in bilico tra lo screaming ed il cantato melodico; si passa subito ai due singoli finora estrapolati dall’album: duplice scelta senza dubbio indovinata e patrocinabile, “American cliché” – beffarda fotografia della quotidiana apatia del “Sogno Americano” – dal ritmo pressante e dal ritornello capace di conquistare fin dal primo ascolto, e “Where do we go from here”, la prima “power ballad” estratta dal cilindro del quartetto e certamente non il primo esempio della classe della ex “one-man band”. “Columind” è l’altra faccia della medaglia: grezzo brano quasi alla Ministry dall’incedere pesante e minaccioso; il clima ritorna sereno con la dolce-amara “The missing” (scritta in concomitanza della tragica data dell’11 settembre 2001) e “The only way (is the wrong way)”, che si potrebbe considerare la “Take a picture” della situazione col suo gusto pop mai scontato a base di chitarre acustiche e saltuari archi. Non si fa attendere il contraltare più squisitamente metal (che ai Filter abbia fatto in qualche modo effetto la vicinanza di Korn, Limp Bizkit e Staind durante il tour Family Values del ’99?): alle due precedenti tracce melodiche rispondono in rapida successione “My long way to jail”, riff “povero” ma d’impatto e drum-machine a pompare l’adrenalina e “So I quit” – la canzone più potente del cd –, dove il singer ci accoglie con un poco educato “motherfucker!”, ci allieta con un inaspettato chorus cantabile prima di incattivirsi sul finale. Con la piacevole e delicata “God damn me” si fa il tris di ballate; “It can never be the same” conduce in un territorio sul confine tra gli Alice In Chains ed i Nine Inch Nails: un esempio di “post-industrial-grunge”? La lunghissima coda del disco suscita oggettivamente una certa perplessità: “World today” (quasi sei minuti di durata) è una litania ipnotica e quasi tribale mentre “The 4th” è un prolisso (oltre otto minuti) ed inquietante outro, un esperimento per Richard Patrick & Co. ed una prova per le nostre orecchie e la nostra pazienza...
La semi-inutilità delle due tracks conclusive (forse le uniche note negative di “The Amalgamut”, assieme alla grafica minimalista ma obiettivamente antiestetica e poco attraente della copertina) intacca solo la superficie e non influisce in modo determinante sulla godibilità e sulla qualità del prodotto, una creatura plasmata dai sempre sofisticati ed intelligenti Filter, che pur avendo rinunciato in parte al programming elettronico degli esordi a favore di percorsi più analogici, non spengono ma anzi ravvivano la scintilla della creatività che li contraddistingue.
Voto: 7,5
01. You Walk Away
02. American Cliche
03. Where Do We Go From Here
04. Columind
05. The Missing
06. The Only Way (Is The Wrong Way)
07. My Long Walk To Jail
08. So I Quit
09. God Damn Me
10. It Can Never Be The Same
11. World Today
12. The 4th